Strategie di sviluppo locale per le aree interne: come si attiva una comunità
Di Vittoria Mazzieri
Siamomine x Smart
A inizio marzo è stato presentato “Qui Val di Fiastra”, un progetto di rigenerazione culturale e sociale che ha vinto il PNRR Borghi, bando del ministero della Cultura per la valorizzazione del patrimonio dei piccoli comuni e il contrasto all’abbandono. I fondi serviranno a mettere in pratica quindici interventi concreti per incentivare la partecipazione sociale nell’intera vallata, coinvolgendo i comuni di Ripe San Ginesio (capofila), Colmurano, Loro Piceno e altri in provincia di Macerata. Il progetto nella sua forma attuale è frutto di un lungo lavoro promosso da Borgofuturo, associazione locale che nasce “dalla volontà di risignificare un luogo a livello di immaginario”, mi spiega Matteo Giacomelli, urbanista e scienziato ambientale, ora ricercatore in urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.
Dal 2010, nell’ambito dei festival e dei social camp, il gruppo di ricercatori, attivisti e place makers (per intendere un vasto insieme di figure che animano la comunità) “ha raccolto ospiti e generato discussioni che mettevano in relazioni le grandi tematiche della sostenibilità globale con la sfera locale della provincia italiana”. L’ultima edizione del festival dello scorso anno, ad esempio, si è costruita attorno al tema dell’abitare: l’esigenza di pensare a un modello sostenibile per l’utilizzo di spazi abitativi nel rispetto dell’ambiente circostante è stata resa ancora più pressante dal sisma del 2016, dalla crisi pandemica e, ovviamente, da quella climatica.
Il percorso si è arricchito di altre tappe: dopo i vari e necessari tavoli di confronto per costruire dal basso nuove prospettive, è nata Inabita, un laboratorio di ricerca e progettazione sulla rigenerazione territoriale. La sperimentazione più grande, continua Matteo, è iniziata proprio con “la costruzione di un ponte tra processi dal basso e istituzioni nazionali: da un lato avevamo i contenuti e le aspirazioni, dall’altro uno scatolone immenso fatto di burocrazia. Far entrare l’associazionismo, le innovazioni sociali e le produzioni artistiche dentro le maglie del processo amministrativo italiano ci è costato un anno e mezzo. Abbiamo avuto notizia del finanziamento a giugno 2022, ma Qui Val di Fiastra è riuscito a partire solo oggi”.
Le riflessioni e le pratiche di Borgofuturo e di ciò che ne è nato aiutano a immaginare possibili percorsi per affrontare problemi endemici di molti paesi italiani, come lo spopolamento. Non c’è una regola, un vademecum: esistono semmai tentativi e sperimentazioni, interventi place based, quindi costruiti con le persone che abitano i luoghi accomunati da condizioni di marginalità e perifericità. Li si chiama “aree interne”. Ma cosa sono? Non si tratta certo di una definizione caratterizzante in senso geografico, visto che sono zone che spesso arrivano fino al mare; non sono aree marginali dal punto di vista dello sviluppo economico, in quanto molte possono vantare un forte tessuto produttivo; è altrettanto errato parlare di zone rurali, poiché quasi mai si vive di agricoltura.
La definizione in uso a livello nazionale le descrive come i territori italiani più distanti dai servizi essenziali quali istruzione, salute e mobilità. Ad oggi ammontano a quasi 4 mila comuni, circa la metà del totale. Coprono il 60% della superficie nazionale e sono abitati da oltre 13 milioni di persone (più del 20% della popolazione totale del paese). Negli anni la definizione è stata affinata dal Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (Cipess), che ha chiarito lo strumentario con cui si misura la perifericità. In sostanza, sono stati stabiliti dei “poli”, quindi dei centri che possono offrire almeno una stazione ferroviaria, un ospedale e “un’offerta scolastica secondaria superiore articolata”. Allontanandosi dal polo si entra in varie fasce di categorizzazione: la “cintura” comprende i municipi locati a meno di mezz’ora di distanza dal centro, le cosiddette aree pre-urbane. Se si va oltre ci si trova in pieno titolo in un’area interna.
Quella modulata sulla prossimità ai servizi essenziali è una distinzione necessaria per chi quei luoghi li vive, ma che sembra del tutto appiattita dal sovrautilizzo del termine “borgo”. Probabilmente in uso nei popoli germanici (“burgus”, per intendere la città dentro le mura di fortificazione), ad oggi indica paesi di varia grandezza, più o meno centrali, ma accomunati da un fascino funzionale agli scopi turistici e pubblicizzato con espressioni inflazionate che parlano di autenticità, di tradizione, di “tempo che si è fermato”. Potremmo pensare che per attrarre visitatori mordi e fuggi non è necessario che ci sia davvero qualcuno ad abitare quei luoghi: le chiese romaniche e le strade ciottolate consentono al turista di vivere un’esperienza antitetica alla città e godere per una manciata di ore di un luogo ameno, rilassante e silenzioso (perché vuoto!). Le case si convertono in strutture ricettive e tutto potrebbe bastare da sé.
Ma in Italia il numero dei comuni sta calando (nel 2001 erano 8.101, a inizio 2024 si è scesi al 7.896), anche se più lentamente di quanto accade in Grecia, Paesi Bassi, Germania, Austria e Francia. In ogni caso, ad oggi il 70 percento dei municipi ha meno di 5 mila abitanti e il 25 percento ne conta meno di mille. L’Italia resta un “paese di paesi”, secondo una espressione che si ripete da tempo: «È l’Italia interna, prevalentemente collinare e montuosa, vittima sacrificale di un modello di sviluppo che nel corso del ’900 ha marginalizzato le zone rurali, privilegiando i grandi centri urbani, le poche pianure e qualche tratto costiero», si legge nell’introduzione di un libro dal titolo omonimo a cura di Rossano Pazzagli, professore di Storia moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi del Molise.
Eppure, accademici, scienziati urbani, operatori sociali, architetti e facilitatori sono impegnati da anni in progetti locali per contrastare la tendenza di abbandono, promossi anche da interventi su scala nazionale. La SNAI (Strategia Nazionale Aree Interne) ha preso il via nel 2013 su proposta di Fabrizio Barca, allora ministro per la Coesione territoriale del governo Monti. Nell’arco di circa un decennio, i progetti nati in seno alla strategia hanno coinvolto 72 aree del paese, pari al 17 percento del territorio nazionale, per un totale di mille comuni e circa due milioni di abitanti. Il significato politico e i limiti di questa iniziativa sono raccolti in un testo molto interessante, pubblicato nel 2022 da Donzelli Editore: curato da Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo, “L’Italia lontana. Una politica per le aree interne” offre una valutazione postuma che ha coinvolto alcuni dei protagonisti di quelle esperienze. Il ricco dialogo posto a introduzione del libro affronta questioni essenziali dei processi di attivazione comunitaria, come gli ostacoli derivanti dalla mancanza di infrastrutture e del riconoscimento del lavoro degli esperti.
Intanto, come chiarisce lo stesso Barca nel confronto iniziale, la SNAI «ha avuto il grande merito di mettere al centro del dibattito pubblico italiano le aree marginali e i piccoli comuni che oggi soffrono moltissimo la distribuzione delle risorse». L’approccio iniziale era di garantire quella che viene definita come “estrazione reciproca dei saperi” mediante due requisiti: il rafforzamento delle strutture tecniche di ogni area progetto, ma anche la stabilità e la creazione di un nucleo tecnico esterno di competenza. Negli anni successivi, tuttavia, si è assistito a un vero e proprio depotenziamento della strategia, che era stata pensata per ampliare e approfondire le modalità con cui si misurano il benessere dei luoghi, ad oggi legate a doppio filo all’andamento del Pil: «Ma la ricchezza», commenta Barca, «è solo una delle molteplici dimensioni, per lo più strumentale, dello “star bene”, e quindi misurare il Pil serve, è la misura chiave del capitalismo, ma non esaurisce, tutt’altro, la misura dello “star bene”».
Quanto successo con la SNAI, spiega sempre l’ex ministro, si è poi ripetuto nella modifica delle linee guida del programma dell’Unione europea Recovery and Resilience Facilty, che nella sua seconda versione ha eliminato, tra gli indicatori per misurare l’impatto delle azioni realizzate con le risorse a disposizione, quello dell’outcome: vale a dire, i benefici in termini dello star bene delle persone, che di certo hanno bisogno di un certo lasso di tempo per essere rilevati, oltre che di un processo di riconoscimento ben più complesso di quello per verificare la riuscita di manufatti o infrastrutture.
La tendenza, denunciano i place makers, è quella di semplificare per raggiungere risultati più superficiali nel più breve tempo possibile. Un risvolto inevitabile alla luce della progressiva riduzione delle risorse e dell’insufficiente formazione del personale tecnico coinvolto sperimentata nei progetti SNAI. Dalle storie che emergono non è raro leggere di aree che, dopo laboratori di co-programmazione svolti con successo, hanno sofferto la carenza di personale gestionale e di competenze nella fase attuativa, quando si tratta quindi di realizzare gli interventi.
Si ha a che fare, a tutti gli effetti, con un processo di cambiamento che fa uso di terminologie e pratiche nuove che spesso i soggetti pubblici coinvolti si mostrano restii ad accettare. È un punto importante che viene introdotto, nella parte iniziale del libro sopra citato, da Laura Caruso, operatrice culturale di CasermAcheologica, un percorso di rigenerazione urbana per la riqualificazione dell’ex Caserma dei Carabinieri di Sansepolcro (AR): le aree interne «vivono il problema della mancanza di accreditamento di professionalità fluide, difficili da raccontare, cui si sommano la mancanza di fiducia e di riconoscimento di queste nuove professionalità spesso incarnate dai giovani».
Proprio nello sforzo di comprendere le direzioni di questi lavori, a Borgofuturo ho parlato con Silvia Di Passio, ospite dell’edizione del festival del 2023. Da anni si occupa di community management: lontano dal mondo delle piattaforme e dei social media che viene in mente a una prima lettura, si tratta in realtà di pratiche di facilitazione per le comunità. Pensare a come rianimare i luoghi solo puntando il dito contro la carenza di progetti dal basso e di spazi di confronto in determinati territori ha il rischio di porre in secondo piano le responsabilità delle istituzioni e dei piani nazionali in termini di allocazione di risorse.
Una comunità viva, territorializzata e consapevole ha bisogno di figure che aiutino il processo di comprensione, guidando nell’allocazione delle risorse e dialogando con i soggetti pubblici. “Attivare progetti partecipativi non significa attivare la partecipazione: è un processo a cui si arriva gradualmente, un percorso complesso che non nasce per offrire soluzioni”, spiega Di Passio. Con alle spalle una lunga esperienza di lavoro con i Gal, i Gruppi di attivazione locale, nel 2019 Silvia risponde a una call della società cooperativa Sardarch, un laboratorio di ricerca che studia le trasformazioni territoriali e che ha messo in piedi un progetto a Nughedu Santa Vittoria, un piccolo comune sardo in provincia di Oristano. Cercano una figura professionale che si addossi il ruolo di “animazione sociale e culturale del territorio e l’attivazione di risorse”. Nei sei mesi in Sardegna Silvia mette in pratica le sue competenze e ne apprende altre, delineando una figura versatile e sfaccettata che è indispensabile ai paesi soprattutto nell’ottica di allocazione delle risorse di bandi e finanziamenti pubblici.
Sedute nella piazza di Ripe San Ginesio, Silvia mi spiega che i suoi committenti principali sono pubbliche amministrazioni, ma anche associazioni e cooperative: “Il mio obiettivo è quello di arrivare nei luoghi, stabilire pian piano delle relazioni di fiducia e iniziare a capire insieme alle persone che cosa si può fare sulla base della richiesta della committenza”. Che può cambiare in itinere: “Spesso mi ritrovo a spiegare che bisogna intraprendere un percorso diverso, perché quello che è stato richiesto dal committente nella fase iniziale non interessa davvero alla comunità. Ma una cosa va detta: tutte le azioni e gli interventi sono pretesti per opportunità di sviluppo più ampio”.
Figure come il community manager sono indispensabili per “attivare l’intelligenza locale, utile e democratica”, sostiene Filippo Tantullo, ricercatore territorialista e promotore della SNAI, dialogando con Antonia Maran (Officine Giovani Aree Interne) durante un incontro a Borgofuturo dedicato al suo Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (Laterza Editori, 2023): un libro che, se da una parte denuncia la lentezza delle istituzioni per apportare cambiamenti concreti alle aree interne, dall’altra comunica l’entusiasmo e la determinazioni di realtà locali che riempiono il presunto “vuoto” in cui sembra riversare parte del nostro paese.
In un’Italia dove i paesi si spopolano, la popolazione invecchia e il paesaggio perde la mano dell’uomo, quindi, serve un approccio trasversale e finalizzato all’agire sociale. “Alle prime domande che rivolgo alle persone (cosa ti piace del tuo paese? Cosa non ti piace?), emerge subito il discorso dell’invidia. La si teme come la peste, la si vede ovunque. Non è altro che il risultato della paura della relazione con l’altro, validata da una struttura politica ed economica neoliberista che impone a ognuno di pensare solo per sé”, racconta Silvia Di Passio.
Alle politiche nazionali e non solo, in sostanza, si chiede un cambio di paradigma non indifferente, che metta al centro la metrica dello star bene in senso ampio, che faccia riferimento a comunità vive e ai modi in cui possono essere ascoltate e animate. Un approccio che contrasta con una cultura urbanocentrica, o metrofila che dir si voglia, che riconosce solo nei grandi agglomerati urbani caratteristiche di modernità e innovazione. E che vorrebbe, dall’altro lato dello spettro, aree interne marginali, marginalizzate ed esotizzate nella loro capacità di garantire amenità e autenticità.
“Confrontandomi con altre colleghe e colleghi, alla fine siamo arrivati tutti al medesimo punto, cioè che si deve ripartire dalla cura delle relazioni, delle emozioni, dell’affettività”, commenta la community manager. Anche nell’introduzione al libro L’Italia lontana. Una politica per le aree interne, l’intervento di Silvia evidenzia la necessità di ripartire dalla gestione delle emozioni: quello che manca è una serie di elementi che «possono generare la capacità di recuperare un potere di fare e determinare cambiamenti anche in maniera collettiva, e costruire le premesse per la felicità, intesa nella sua capacità generativa».