Siamomine x Smart
Ci interessa il lavoro, la sua tutela e la sua dignità, ma riteniamo altrettanto indispensabile alla crescita della nostra comunità l’espressione artistica e la critica della cultura. Con questa riflessione sul cinema vogliamo allargare il nostro sguardo per interrogarci ancora più a fondo sui valori su cui la nostra cooperativa fonda la sua mission.
La rappresentazione del male
C’è ancora domani è un film femminista ma non ci aiuta a
comprendere il Male. E se provassimo a immaginare nuove forme di
narrazione?
di Valerio Callieri
C’è ancora domani è il maggior incasso del cinema italiano del 2023 e il
quinto miglior incasso di un film italiano nella storia. Forse lo sapete già,
ma parliamo di una storia di emancipazione femminile che si svolge a
ridosso delle Elezioni politiche del 1946, le prime in cui le donne
poterono votare in Italia.
In un quartiere popolare di Roma, la protagonista Delia deve affrontare
quotidianamente un marito violento e autoritario. Deve affrontare anche
il padre del marito violento, forse dal passato ancora più violento di lui –
lo deduciamo dai suoi racconti – e una società patriarcale che paga
meno le donne, le ritiene proprietà degli uomini e le riduce al silenzio.
Con un’etichetta facile, potremmo definirla un’opera
neorealista-femminista. Ci sono tanti riferimenti ai nostri film del
Secondo dopoguerra, sebbene il film usi quella eredità narrativa come
fondamenta su cui edificare una storia diversa, con soluzioni registiche
innovative (qualcuna più maldestra, qualcuna più efficace).
C’è un punto di vista decisamente e finalmente partigiano per quanto
riguarda le relazioni di genere. Come scrive Gabriele Niola, è una
commedia in cui “a risaltare è tutto quello che all’epoca non si mostrava,
soprattutto la violenza sulle donne, psicologica e fisica.”
Vorrei provare a capire se la storia di Paola Cortellesi riesce a evitare
alcuni topoi ricorrenti del cinema italiano, in particolare lo schieramento
delle seguenti armi melodrammatiche: l’enfasi espressiva, il culto
dell’innocenza e il manicheismo morale. Vorrei provare anche a
rispondere a una domanda che riguarda la rappresentazione del Male –
che poi è il corollario dei tre punti succitati – e a scommettere sulla
possibilità di un’altra narrazione che non serva a vincere.
Enfasi espressiva
Un elemento che Gramsci considera peculiare nella concezione estetica
italiana è la concezione melodrammatica della vita. Il filosofo sostiene
che persino nelle classi popolari a volte troviamo una degenerazione
libresca della vita. I nostri prodotti culturali – libri, film, musica (in
particolare i drammi musicati, tipo quelli di Verdi) – sono stati responsabili
della creazione di “atteggiamenti artificiosi” e “modi di pensare.”
Praticamente, i frame attraverso i quali osserviamo e raccontiamo la
realtà.
Scrive Gramsci nei Quaderni del carcere:
“Il barocco, il melodrammatico sembrano a molti popolani un modo di
sentire e di operare straordinariamente affascinante, un modo di
evadere da ciò che essi ritengono basso, meschino, spregevole nella
loro vita e nella loro educazione per entrare in una sfera piú eletta, di alti
sentimenti e di nobili passioni. I romanzi d’appendice e da sottoscala
(tutta la letteratura sdolcinata, melliflua, piagnolosa) prestano eroi ed
eroine; ma il melodramma è il piú pestifero, perché le parole musicate si
ricordano di piú e formano come delle matrici in cui il pensiero prende
una forma nel suo fluire.”
Prima di vedere C’è ancora domani, confesso che avevo il timore di
trovarmi di fronte a una storia sentimentalista in cui le svolte di
trama e la struttura dei personaggi fossero fondate sulla forza delle
emozioni ricattatorie: quel particolare stato d’animo in cui piombiamo di
fronte alla violenza su una persona innocente, meglio se donna o
bambino. O di fronte a un amore puro ostacolato dall’ingiustizia sociale.
Emozioni che disarmano. Emozioni su cui anche il neorealismo ha
parzialmente fondato la sua struttura drammaturgica, e su cui l’industria
cinematografica ha sviluppato un vero e proprio filone che la critica ha
battezzato neorealismo d’appendice.
Una scena è esemplare della capacità della regista di evitare questa
insidia: la protagonista Delia incontra una sua vecchia fiamma, il
meccanico Nino. Mentre i due si dividono un pezzo di preziosissima
cioccolata americana, la macchina da presa, in una lenta carrellata
circolare, descrive i loro volti innamorati. La colonna sonora sovraccarica
tutto con una canzone d’amore di Fabio Concato. Proprio nel momento
di retorica patetica più alta i due sorridono e i loro denti sono sporchi di
cioccolata – sembrano quasi marci – e generano un bel contrasto ironico.
I loro sorrisi si abbassano, come arresi all’inevitabilità della loro
separazione. E un cliente dell’officina di Nino interrompe tutto con un
urlo: “Aho a Nino! Ma nun ce senti? Ce sto a fa’ la bbuca qua!”. Nino a
quel punto non si gira verso di lui e urla solamente: “Eccolooo!” Qui,
l’attore Vinicio Marchioni diventa meravigliosamente e per un attimo un
altro Nino (Manfredi).
È tramite questi colpi comici e ironici che il film riesce a disinnescare
l’enfasi melodrammatica. In molte scene rischiose – la violenza maschile,
il lutto, gli incontri affettuosi – la regia sceglie strade stranianti, a volte
ironiche a volte assurde, che riescono a disattendere le nostre
aspettative e a farci vivere la scena ancora più profondamente. In
particolare, in alcuni di questi frangenti Emanuela Fanelli e Paola
Cortellesi sono irresistibili.
Innocenza
Il quartiere popolare in cui vive la famiglia di Delia è Testaccio. Proprio
là, a poche centinaia di metri, c’è il cimitero acattolico dove è sepolto
Gramsci. Nella poesia Le ceneri di Gramsci, durante il tramonto i colpi
delle incudini delle officine del quartiere raggiungono la tomba di
Gramsci. Quando Pasolini la scrive è il 1954, le donne continuano a
votare e in un ipotetico sequel Delia probabilmente è ancora viva e
maltrattata dal marito violento.
Pasolini rivela al filosofo comunista sepolto di essere:
“attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua
allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza:
è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle
l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica/”
È quasi il cuore della prima riflessione antropologica pasoliniana:
l’esaltazione della purezza degli umili appena prima di essere trasformati
dal cinismo consumista (o dalla coscienza di classe) della società
industriale. Il rischio di un concetto del genere in drammaturgia è il film a
tesi: la narrazione populista in cui gli innocenti popolani vengono
manovrati e schiacciati dai cattivi di turno. E forse possiamo affermare
che dal teatro risorgimentale fino ai libri da Premio Strega del “nobile
intrattenimento” – per citare un recente testo di Gianluigi Simonetti -, dal
cinema engagé del Dopoguerra fino alle recenti declinazioni sui social
media, questa caratteristica sia stata quasi una forma duratura
dell’immaginazione italiana (su questo hanno scritto pagine illuminanti –
e antigramsciane, per certi versi – Franco Fortini, Walter Siti, Alberto
Asor Rosa e Daniele Giglioli).
In questo senso, C’è ancora domani indulge un po’ all’esaltazione
dell’innocenza. Non sono i bambini a incarnarla – adeguatamente
respingenti i volgarissimi figli di Delia – ma le figure femminili e un
soldato afroamericano che tenta di salvare la nostra protagonista dalla
sua situazione. Eppure, il lato delle vittime non è uniforme ma agitato
anche da donne che si fanno guerra tra loro. E soprattutto, proprio nella
linea narrativa meno efficace, quella con il soldato, la protagonista
compie un gesto esplosivo (spoiler a metà) con cui si strappa di dosso i
panni della vittima innocente. Una violenza con cui tenta di salvare il
futuro della figlia, ma che in un film simile avrebbe potuto essere evitata
cercando una soluzione più buona, più innocente appunto.
Fortunatamente gli sceneggiatori e la regista non la cercano.
Peter Brooks sostiene che una delle fonti del mélodrame è la
drammaturgia della virtù perseguitata. La virtù di qualche creatura
fragile che solo alla fine della storia viene riconosciuta e salvata dai
cattivi grazie a un intervento esterno. Sebbene la conclusione sia
collettiva e quasi epica, qui Delia fa da sola. Agisce in maniera poco
innocente e non viene salvata da nessuno, tantomeno da un uomo
buono (a proposito del femminismo strutturale del plot).
Il fascino del male
C’è una strofa della canzone Cinnamon degli Offlaga Disco Pax che mi
rimbomba nel cranio ogni volta che assisto a una particolare
rappresentazione dell’antagonista all’interno di una storia:
“Tele Capodistria era un vulcano di emozioni. Film partigiani dove i
tedeschi erano cattivi e i partigiani buonissimi e intelligentissimi.”
Se il film di Cortellesi riesce a schivare le trappole dell’enfasi espressiva
e del culto dell’innocenza – anzi, a trovare soluzioni anche coraggiose –
risulta meno innovativo per quanto riguarda il manicheismo morale.
Come scritto sopra, nella rappresentazione delle donne vediamo un
percorso di ribellione che prepara alla scena finale: le donne non sono
solamente le vittime fragili ma possono rispondere e conquistare terreno.
In quella del male – nella duplice accezione inglese e italiana –
assistiamo invece al racconto di cattivi idioti. A involucri umani abitati
dalla malvagità o dalla stupidità.
La parte del cattivo in questo film è interpretata dal marito di Delia,
Ivano, la punta di diamante di una società patriarcale che si manifesta in
ogni maschio del film (si salvano forse in due, ma sono figure laterali
della trama). Non c’è solo la violenza fisica, ma tutto il ventaglio di
deprivazione economica ed emotiva che le donne subiscono
storicamente: devono tacere quando pronunciano una parola di troppo o
quando semplicemente pronunciano, non devono contraddire un uomo o
mostrarsi più intelligenti, devono accettare salari minori, non devono
truccarsi se sono fidanzate e quindi proprietà di un uomo. Ivano, in
particolare, è in grado di sfoggiare tutte le passioni tristi dell’essere
umano. È un uomo pieno di rabbia nei confronti della moglie, crudele
nella sua continua violenza verbale e fisica contro di lei, incapace di
assumersi responsabilità – esce dal bagno e si rivolge alla moglie: “La
catena del cesso s’è rotta n’antra volta, vòi fa’ piano?” -, anaffettivo con i
due figli maschi più piccoli, incapace di provare gioia, paranoico quando
chiama “baldracca” la moglie per un pezzo di cioccolata ricevuto in
regalo, gonfio di risentimento quando apre la finestra che dà sul cortile
del suo palazzo per urlare una bella notizia e generare invidia: “Tutti
dovete schiatta’! A miserabbili!” (i social media non c’erano). Ha dei baffi
folti ed entra in scena con una canottiera a costine.
In un’intervista al New York Times Paola Cortellesi afferma di averlo
scritto in questa maniera deliberatamente, per evitare che i ragazzi
potessero subire il fascino di Ivano e magari avere la tentazione di
emularlo. Devo confessare che ci penso e ci ripenso ma pur
comprendendone le ragioni non riesco a essere d’accordo fino in fondo.
E non perché gli uomini, e soprattutto gli uomini italiani del 1946 che non
erano nemmeno minimamente sfiorati dal dubbio sulla legittimità del loro
dominio sulle donne, non siano stati anche così. Ma perché non è una
rappresentazione sufficiente, né artisticamente completa né, ancora,
politicamente utile.
Per cominciare, qualcuno potrebbe obiettare che la funzione del cinema
e dell’arte in generale – ammesso che ne abbiano una – sia produrre
ambiguità e complessità. Far sedere lo spettatore su una poltrona un po’
scomoda. Farlo rispecchiare in un personaggio complicato, a volte
nocivo per la società. Mostrare quanto la linea che divide il Bene dal
Male non sia così rigida e che perfino lo spettatore l’ha spesso
attraversata con comportamenti sessisti, fascisti, tossici, clientelisti,
manipolatori, razzisti. O comunque ha riconosciuto dentro di sé alcune
pulsioni deteriori. Qualcuno potrebbe sostenere che sia molto più
interessante identificarsi con Tony Soprano, Maximilen Aue e Humbert
Humbert per conoscere l’essere umano e che, facendolo, non corriamo il
rischio di diventare mafiosi, nazisti o pederasti. Che la narrazione non
debba mai assolvere una funzione consolatoria in cui tutti ci possiamo
riconoscere dalla parte del Bene – come fa la narrativa del neoimpegno –
ma possa rivelarci qualcosa di noi che non conoscevamo, che non
avevamo mai avuto il coraggio di dire ad alta voce. Ancora, qualcuno
potrebbe sostenere che non debba mai essere un vulcano di emozioni
consolatorie in cui i nazisti e i fascisti sono cattivi e i partigiani
buonissimi.
Insomma, potremmo entrare in un dibattito bello, polveroso e feroce nato
all’origine della filosofia e dell’estetica occidentali: già Platone – per
bocca di Socrate nel decimo libro della Repubblica – voleva impedire la
diffusione dei poemi omerici e condannava l’ambiguità della tragedia di
Eschilo perché i personaggi avrebbero potuto essere emulati. Proprio
come sostiene Cortellesi: Ivano non deve avere lati piacevoli per
impedire che qualcuno ne subisca il fascino. Ma questa cosa
funziona? Quali sono i suoi effetti politici? Ci aiuta a prevenire il
ritorno del Male?
Vincere o comprendere?
Adesso, come diceva un filosofo, tenetevi forte e sputatemi addosso
(anzi, avviso codardamente di trarre il seguente aneddoto dal libro Il
Regno di Emmanuel Carrère, quindi nel caso fosse infondato dovrebbe
essere lui il bersaglio). Il grande sceneggiatore e regista Billy Wilder
dopo la visione di un film tratto da Il diario di Anna Frank disse: “Davvero
splendido… Molto commovente. (Pausa). Ma comunque sarebbe
interessante conoscere il punto di vista dell’avversario.”
Il fatto che Wilder provenisse da una famiglia ebraica e che la madre
morì nel campo di sterminio di Auschwitz ci rivela che non intendeva
conferire un alone provocatorio o ironicantisemita alla sua osservazione.
Credo che intendesse l’assenza di una parte fondamentale della storia.
Eppure, cosa c’è da comprendere del punto di vista dei nazisti? E se
comprendere significasse giustificare? Credo che molti scrittori e registi
abbiano questo timore.
Tra le altre cose, ben prima di Gramsci e del neorealismo, l’Italia è stata
la patria dell’opera lirica. Dai primi tentativi risorgimentali fino a oggi la
nostra scrittura è stata spesso influenzata da riflessioni simili a questa,
scritta nel 1799 dal politico e giornalista Giuseppe Lattanzi:
“La maggior parte della massa degli Uomini non sa leggere, e pochi ve
ne sono che sappiano intendere quel che leggono, quindi il saggio
Legislatore deve rintracciare altri mezzi per insinuarsi nel cuore del
Popolo, e per istruirlo. Non v’è maniera più estesa, più facile, più
dilettevole per bene riuscirvi che quella cui ci presentano i Teatri
Nazionali. Il Teatro è la scuola principale della moltitudine.”
Mazzini stesso promosse con i suoi scritti un’arte civile, impegnata, in
grado di intercettare nuovo pubblico e di mobilitarlo alla causa nazionale.
Anche sulla scia del nuovo mélodrame del teatro francese della
Rivoluzione, in Italia si diffuse l’idea che la letteratura e il teatro
dovessero essere portatori di valori politici, più o meno democratici.
Questo impedì per lungo periodo l’autonomia del campo artistico nel
nostro paese. Per l’appunto, secondo le riflessioni di Mazzini la
narrazione (il romanzo ma soprattutto l’opera lirica in Italia) doveva
utilizzare tutte le forme del mélodrame: l’enfasi espressiva, un linguaggio
esageratamente emotivo, la sostanziale equivalenza tra vittima e virtù.
E, ovviamente, un confine molto netto tra i buoni e i cattivi.
La mia domanda è: questo frame melodrammatico ci aiuta a riconoscere
il Male? Per tornare a C’è ancora domani, riusciamo a prendere
consapevolezza della mostruosità della società patriarcale se la
rappresentiamo solamente in maniera mostruosa? Oppure la sua
mostruosità è prodotta proprio dal suo presentarsi in maniera
non-mostruosa? (E qui vorrei allargare il discorso a tutto ciò che
consideriamo Male, eticamente parlando).
Io credo che il frame melodrammatico chiarisca il nostro posizionamento
e promuova una coscienza collettiva. E riesca anche ottenere effetti
reali.
Mi vengono in mente: La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher
Stowe, un romanzo abolizionista, scritto male e addirittura additato dai
militanti del black power come apologeta della figura del negro da cortile.
O lo scrittore ottocentesco di feuilleton Eugène Sue che con I misteri di
Parigi inaugurò una nuova industria culturale – in Francia c’era un’attesa
spasmodica per l’uscita delle puntate sul giornale: si affittavano le copie
del Journal des Débats per leggere l’ultima uscita in appositi gabinetti di
lettura, gli analfabeti si riunivano in gruppi per ascoltarne la lettura -,
accusato politicamente e letterariamente da Karl Marx ed Edgar Allan
Poe di riformismo consolatorio e di cinico opportunismo sentimentalista.
In entrambi i casi si tratta di storie demagogiche e gratificanti allo stesso
tempo, in cui i clichè narrativi, il manicheismo morale e il culto
dell’innocenza sono dispositivi fondanti. Nessuna ambiguità per il
lettore, nessuna guerra interiore, anzi la confortante sensazione di
essere e provare emozione per la parte giusta. Che alla fine vincerà,
almeno moralmente. Eppure, chi può negare che queste storie
contribuirono alla presa di coscienza delle atrocità che subivano gli
afroamericani e delle condizioni sociali del popolo parigino? Che
condussero all’abolizione della schiavitù e alle insurrezioni radicali del
1848?
Come scrisse Umberto Eco sulle soluzioni consolatorie di questa
narrazione: “Che la rivolta fosse ambigua e mistificata, non conta, sono
sottigliezze da filosofo; per certuni rimase solo il grido, l’indice di Sue
che additava lo scandalo della miseria. Le idee, anche se sono
sbagliate, una volta diffuse marciano da sole. Non si sa mai esattamente
dove arrivino.”
Credo che il punto sia proprio questo, la capacità di marciare, lottare e
vincere. Ma quanto dura? E cosa succede dopo la vittoria? E come
impedire che si riproduca una società in cui l’avversario, il nemico, il
ribelle, venga raffigurato come inumano, il Male per l’appunto?
Una nuova narrazione?
Il postulato di tutto il mio discorso: il Male in fondo non esiste, o meglio:
non esiste con la lettera maiuscola, come un colore nero senza
sfumature su sfondo bianco. Esiste nella metafisica e nei cartoni animati
in cui i cattivi aprono le palme delle mani al cielo e ridono demoniaci.
Inoltre, la storia ci insegna che i codici morali configurano il male a
seconda della convenienza politica o religiosa di turno.
Credo che la rappresentazione del Male Metafisico Maiuscolo:
1) Ci impedisca una visione chiara sulla nostra umanità friabile:
anche noi sedicenti buoni siamo esseri umani, quindi dotati di una
riserva emotiva di malvagità, invidia, prepotenza. Indossare
sempre i panni della vittima perseguitata dai cattivi ci impedisce di
comprendere bene quando le esercitiamo.
2) Ci autorizzi a compiere qualsiasi azione per eliminarlo. Se
vogliamo entrare nella geopolitica emotiva degli ultimi due secoli:
le vittime storiche, vere o autoproclamate, diventano i carnefici più
spietati.
3) Ci renda molto più difficile riconoscerlo nel momento in cui si
presenta di nuovo. È molto probabile che la sua nuova forma sarà
opaca, ambigua e conveniente, piuttosto che netta, illuminata e
spaventosa.
Inoltre, dal momento che l’obiettivo melodrammatico è il raggiungimento
delle emozioni più semplici e meno controllabili, questo tipo di
rappresentazione non è vincolata a qualche forma di bontà o
emancipazione politica: anzi, è stata usata per vincere anche dai nazisti,
dagli stalinisti, dai colonialisti. L’enfasi emotiva sull’innocenza di una
razza o di un ceto sociale o di un genere, rappresentati sempre come
vittime sofferenti, ci conduce a invocare “superuomini” e creare i campi
di concentramento per sconfiggere il Male inumano del nemico.
Tuttavia si potrebbe aggiungere che la rappresentazione del male così
univoca sia un problema di quasi tutta la cinematografia. Potrebbe
essere quasi un problema di mezzi a disposizione: il romanzo e la serie
tv hanno un tempo più ampio per approfondire i personaggi; tra le più
belle che mi vengono in mente, The Wire, Better Call Saul e lo stesso
Lost (se tagliamo le ultime 2 stagioni) riescono a raccontare in maniera
più complessa gli antagonisti, The Others.
Sebbene sia giusto mettere in campo le necessità stringenti della
battaglia civile, il problema di un arco temporale più limitato e le
esigenze economiche delle produzioni cinematografiche, penso che la
questione abbia radici più profonde: per ritornare alla vittoria filosofica di
Platone su Eschilo, abbiamo perso lo sguardo tragico. La capacità
artistica di comprendere le ragioni, anche ostili, dell’altro. L’esigenza di
una narrazione tesa a esplorare l’essere umano, e non a vincere.
Preferiamo sederci dal lato giusto della Storia piuttosto che indagare
quanto sia facile scivolare nel lato sbagliato o quanto il lato sbagliato sia
tremendamente umano.
Non credo che le persone che hanno desiderato o sono state conniventi
o indifferenti all’orrore lo abbiano fatto comprendendolo a fondo. Credo
che il male sia più seducente di quanto siamo disposti ad
ammettere e non si mostri solamente con il passo dell’oca o la
canottiera a costine. Può essere ironico e intelligente come lo
Standartenführer Hans Landa di Inglorious Basterds o essere
affascinante e giocherellone con i bambini come il marito stupratore di
Nicole Kidman in Big Little Lies o ancora un simpatico sbruffone
godereccio come l’amante o un timido rispettoso come il marito
promesso della protagonista – ma entrambi due tentativi maschilisti di
ingabbiare Emma Stone – nel recente Poor Things di Lanthimos.
Gramsci scriveva di odiare gli indifferenti e di trovare noioso “il loro
piagnisteo di eterni innocenti […] di poter essere inesorabile, di non
dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie
lacrime.”
È probabile che una parte della responsabilità dell’indifferenza o
connivenza o sostegno vada ascritta anche a un certo tipo di narrazione
che sembra rendere facile la riconoscibilità del Male. Se vogliamo
evitare di ripetere gli errori non basta solo ricordare, dobbiamo anche
comprendere come sono andati veramente gli eventi, senza ridurre
l’avversario a una caricatura dei suoi tratti più spaventosi. Non credo sia
giusto sacrificare la verità al desiderio di vincere. Anche perché non c’è
un momento in cui la Storia finisce e il male rimane per sempre confinato
fuori dalle mura della città.
Dobbiamo evitare uno sguardo sicuro, arrogante, compiaciuto di essere
in grado di discriminare il Bene dal Male. Uno sguardo quasi necessario
in tempi di guerra: elettorale, armata, propagandistica. Uno sguardo in
grado di disumanizzare, rendere inferiori, ridicolizzare. Che proietta tutte
le proprie paure, insicurezze, rabbie sull’altro da sé. Tra le altre cose,
proprio quello che il genere maschile nelle sue varie forme ha fatto nei
confronti di quello femminile. Se ci pensiamo bene, il culto
dell’innocenza, la vittima perseguitata, il bene della virtù, l’enfasi
sentimentale, la tentazione del Male, sono tutti frame attraverso cui
l’uomo ha rappresentato la donna che lui avrebbe poi salvato, redento,
rinsavito.
La nascita e la diffusione del mélodrame avviene più di due secoli fa in
un mondo che sta perdendo le sue certezze millenarie a causa della
Rivoluzioni (soprattutto quella francese) che mettono in discussione Dio,
il re e l’aristocrazia. Un mondo che ha bisogno di trovare nuovi valori
morali su cui fondare il futuro. E che, in ogni modo, fino al secolo scorso
decide di non mettere mai in dubbio la conduzione maschile dei suoi
affari. In questo senso, il male gaze è stato una cornice estetica prodotta
da rapporti di potere sbilanciati attraverso cui abbiamo osservato e
raccontato la nostra storia. Chissà che un altro tipo di immaginazione
tragica possa irrompere da una molteplicità di sguardi che sono sempre
stati tenuti lontani dalla macchina da presa.