Perché “Forza lavoro” è il libro che i freelance devono leggere

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Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) è il nuovo libro di Roberto Ciccarelli. In una settimana è già andato in prima ristampa. Intervista all’autore su cosa significa essere freelance, e avere un contratto di lavoro, nella rivoluzione digitale. Ciccarelli considera SMart “un modello per il futuro”: “E’ la sintesi del mutualismo, della cooperazione e della democrazia del XXI secolo”.

 

Forza lavoro parte dalla constatazione di un paradosso del mondo contemporaneo: il lavoro sembra scomparso. Soprattutto se guardiamo al sempre più vasto mondo dell’economia digitale, sembra di assistere a un processo di trasformazione del lavoro in attività, molto spesso ricreativa. È vero, oppure c’è qualcos’altro nella profondità dell’economia?

La trasformazione del lavoro in gioco, o intrattenimento, è uno degli elementi strutturali dell’economia digitale. Se prendiamo Facebook, la piattaforma pubblicitaria dove gli utenti erogano lavoro-gioco, questa trasformazione è immediatamente comprensibile. Più tempo passiamo a mettere like o a esprimere opinioni, pubblicando gattini e foto di serate al pub, più Facebook ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria che è il cuore del suo business. Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Per la precisione qui si parla di forza lavoro, non di lavoro oggettivato, salariato, contrattualizzato. Caratteristica principale del capitalismo delle piattaforme digitali, di tutto il capitalismo contemporaneo, è valorizzare immediatamente e senza intermediari la forza lavoro, ovvero la facoltà generale e comune di produrre qualsiasi valore d’uso sia per la produzione di merci che nelle relazioni, nell’intelligenza, nelle pratiche, nella vita quotidiana, dentro e oltre il valore economico di scambio di una specifica operazione o comportamento. È un meccanismo profondissimo che ha trasformato radicalmente l’antropologia umana.

 

Già in un tuo precedente lavoro, intitolato Quinto stato (scritto con Giuseppe Allegri e uscito per Ponte alle Grazie) avevi cercato di descrivere l’emergere di una nuova classe di lavoratori. Come sono cambiate le cose, se sono cambiate, con Forza lavoro?

Più che una classe di lavoratori o un nuovo ceto, la categoria di quinto stato definisce una condizione comune a coloro che sono extraterritoriali in uno Stato – i migranti – e coloro che sono apolidi in patria – i cittadini nativi di un territorio. Questa sintesi coglie la condizione attuale di persone private della cittadinanza, e per questo perseguitate dagli Stati; e le persone escluse nella cittadinanza dal godimento reale dei diritti sociali. Diversamente dal Terzo stato che definisce un ceto (borghese), dal Quarto stato che definisce alcune categorie di sfruttati (contadini e operai), il Quinto stato è una categoria che definisce una condizione trasversale ai ceti, alle classi e alle professioni. Coglie i nessi e le relazioni prodotte dallo sconfinamento rispetto alle categorie tradizionali e alle appartenenze sociali, culturali e psicologiche acquisite e riprodotte. Il Quinto stato è una nuova immagine della società che permette di identificare – nel bene e nel male – le relazioni, i comportamenti e i discorsi. Da questo punto di vista è uno strumento più valido di concetti quali “popolo”, ad esempio, senza contare le varie categorie psicologizzate di “rancore” che di solito si usano per sociologizzare la nuova composizione sociale o produttiva. Con Forza lavoro faccio un passo avanti in questa ricerca. La forza lavoro, intesa marxianamente come capacità di lavoro e come facoltà produttrice di tutti i valori d’uso di una vita, è la parte attiva, intelligente, cooperativa, astratta e concreta che accomuna gli esseri umani indipendentemente dalle loro appartenenze e specificità professionali e nazionali. Forza lavoro è la proprietà inappropriabile, la facoltà che appartiene a tutti ed è di nessuno perché è sempre in divenire. Nella massima frammentazione in cui viviamo, la forza lavoro è ciò che ci accomuna. Su questa base è possibile iniziare a ragionare su una prospettiva culturale, politica, umana. Forza lavoro porterà a nuove tappe che approfondiranno – con nuove inchieste giornalistiche e filosofiche – questa condizione. La prossima sarà la condizione delle studentesse e degli studenti dopo la “Buona scuola” di Renzi e la “riforma” Gelmini dell’università. Ce ne saranno altre.

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Tornando a Forza lavoro… tra le altre cose, il testo fornisce anche una chiara distinzione tra termini di cui spesso si abusa: sharing economy, gig economy. Puoi darci una bussola per orientarci in questo mare? 

Nella sharing economy – l’economia della condivisione – è presente sia la mentalità collaborativa della forza lavoro contemporanea, sia il sé non collaborativo dell’imprenditore di se stesso. Nella sharing economy è presente sia una pratica di intermediazione commerciale sia una di disintermediazione sociale. Da qui nasce la sua forte ambivalenza, caratteristica di tutti i discorsi sull’ “innovazione sociale”. La gig economy, “l’economia dei lavoretti”, è  diversa. Pur funzionando sulle piattaforme digitali, segue una razionalità mirata all’organizzazione puntuale delle micro-mansioni lavorative e produttive in un’ottica taylorista. La gig economy è un’organizzazione scientifica della prestazione digitale a cottimo eterodiretta da uno o più algoritmi. La sharing economy è dunque una regolazione dell’accesso a beni e servizi, oltre che un modo neocapitalistico di gestione delle proprietà (immobiliari). La gig economy è un modo di organizzazione della forza lavoro. Entrambe condividono un certo funzionamento della razionalità produttiva ispirata all’algocrazia, ovvero al potere degli algoritmi, a cui la rivoluzione digitale di cui parlo nel libro assoggetta acriticamente tutti gli aspetti complessi della forza lavoro.

 

Altra definizione di cui ti occupi è quella di “freelance”, la cui origine sostieni risalga a un’idea della guerra. E questo, sembra valga anche per il lavoratore subordinato. Contro cosa lotta un freelance?

Si ritiene che il freelance sia l’espressione organica dell’impresa e, per questo, si nega per principio che possa rivendicare qualcosa. Non lo può fare, perché è un’impresa. Cosa fa? Sciopera contro se stesso? Questo approccio è fallace. Forza lavoro dimostra invece una storia completamente diversa e la possibilità di diventare tutt’altro che un micro-imprenditore portatile. Il freelance appartiene alla storia del lavoro, è l’espressione di un conflitto. È in lotta per ottenere una giustizia fiscale, contributiva, di reddito.

 

Non si può negare però che il freelance lavori anche attraverso l’impresa…

Certo, oggi questi confini si sono fatti molto più sottili che nel passato. È cambiato il lavoro ed è cambiata l’impresa. Ma una cosa è il freelance che cerca una commessa, per guadagnare un reddito, un’altra è l’imprenditore o la pubblica amministrazione che paga una sua prestazione. Sono due mondi diversi e non possono essere sovrapposti. Il freelance fa parte di un mondo molto più grande composto dal lavoro autonomo (ordinistico e non ordinistico). Il lavoratore (autonomo e dipendente) può diventare sia un socio di una cooperativa che di una micro-impresa. Spesso, anzi, passa dall’una all’altra, con significative pause legate alla disoccupazione o all’inattività, saldate con periodi di lavoro sommerso, informale o in nero. Questo scenario non riguarda solo il lavoro autonomo, coinvolge anche il lavoro parasubordinato. Nella società del Quinto stato i confini tra le tipologie giuridiche del lavoro sono diventati porosi, le identità derivanti dagli status lavorativi e professionali sono sempre più fluide: c’è il professionista che conduce un’esistenza da precario, tanto quanto il riconosciuto precario da lavoro subordinato. In generale queste forme di lavoro povero sono anche nomadi e interessano il mondo del lavoro digitale, l’oggetto di questo libro, ma anche quello più grande dei contrattisti a termine, dei lavoratori somministrati, di tutto il lavoro occasionale dove si possono trovare lavoratori autoctoni e stranieri.

 

Chi è l’imprenditore di se stesso?

È l’eroe del nostro tempo. Nel libro ne faccio una genealogia e invito a non tirare giudizi sommari, né a fare la morale. Anche perché, purtroppo, è anche la nostra forma di vita. Attaccare in astratto, o personalmente, qualcuno perché coltiva l’illusione parossistica e patologica di trasformare la propria esistenza in un’impresa capitalistica – diventare una IO S.p.a., un’azienda dell’io, I-O è il raglio dell’asino diceva Nietzsche – può produrre un inconveniente: anche chi fa questa critica molto spesso adotta i comportamenti e la mentalità della IO S.p.a. Chi usa il metodo genealogico per dipanare ciò che noi siamo oggi, dentro la nostra attualità, sa bene che bisogna rispettare e in un certo senso amare la forma di vita, anche se non ci piace e ci fa stare male. Ciò non vuol dire che vada bene. Al contrario.

 

Come si spiega il successo di questa figura?

Perché sotto questa espressione paradossale, e lievemente ironica, si nasconde una realtà difficile da accettare. Chi dà una risposta alla ricerca di una liberazione sono i teorici del capitale umano, non la sinistra che parla di emancipazione attraverso il lavoro e, tanto meno, populisti e razzisti che, con prospettive diverse ma non inconciliabili, identificano la liberazione nella totalità immaginaria di un “popolo” oppure nell’autenticità o nella purezza di una popolazione. Le teorie del capitale umano offrono una risposta più convincente. È scandaloso dirlo, ma davanti a noi, come modello di emancipazione, c’è solo quello dell’impresa. Se vogliamo essere liberi, lo possiamo essere imponendo la nostra “impresa personale” sugli altri. Impresa non è intesa come “avventura”, elaborazione di un imprevisto, esperienza di un evento, sorpresa, rivelazione. Tutto è prevedibile, misurabile, previsto nel nostro mondo immobile. Se non sei “imprenditore” non puoi liberarti dallo sfruttamento che, in fondo, sei tu a praticare contro te stesso. L’imprenditore di se stesso va compreso come forma alienata di una ricerca instancabile di autonomia da parte del soggetto che oggi – dopo 40 anni di neoliberismo – la confonde con la subordinazione e l’auto-sfruttamento. È un cortocircuito devastante.

 

Cosa significa oggi “impresa”?

Realizzare la persona in quanto capitale umano. Il lavoratore, per essere tale, deve identificarsi con il suo opposto. La sua forza lavoro è l’antagonista del capitale. Ora però non c’è alcuna differenza. Questa è l’operazione geniale, e truffaldina, delle teorie neoliberali che sono delle filosofie della forza lavoro anti-marxiane. Forza lavoro opera un contro-rovesciamento di questa impostazione che identifica gli opposti per neutralizzare la duplicità costitutiva della forza lavoro: nega che sia una facoltà autonoma di produrre valore d’uso, la riduce a capacità di lavoro quantificabile e governabile sulle piattaforme digitali. Restiamo al significato dei termini: il capitale in sé non è umano, è un’astrazione. L’umanità del capitale non è altro che la riduzione del vivente al patrimonio di qualcuno. Nel libro sostengo, invece, che la forza lavoro è una proprietà comune, non appartiene a nessuno ed è a disposizione di qualcuno che se ne appropri. Il primo che può farlo è chi la usa, ma non la possiede: il soggetto al di là della sua identificazione in un lavoratore specifico. Date queste premesse, non può possederlo nemmeno un capitalista umano. Tutt’al più la può usare, ma non può metterla nel museo delle sue merci, accanto al suo Io.

 

Come si può superare questa condizione? 

Affermando la materialità dell’esistenza. Non siamo imprenditori, abbiamo bisogno di reddito, salario, diritti sociali, tutele universalistiche, una drastica riduzione dell’orario di lavoro, un’etica dell’autodifesa digitale come la chiama Ippolita. Alla rivendicazione puntuale di questi aspetti va associata una prospettiva più ampia. Non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita. Vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti. Lo strumento è il reddito universale e incondizionato. Se sei sempre al lavoro, e questo lavoro non è riconoscibile solo attraverso il contratto di lavoro, in un rapporto di lavoro, questa declinazione del reddito può soddisfare la drammatica domanda inevasa di reddito. Oggi siamo al paradosso: il reddito, in questa forma, non in quella del Movimento Cinque Stelle, è rivendicato dalla Silicon Valley, cioè da coloro che ci mettono al lavoro più intensamente con le piattaforme digitali. Il reddito, in quanto forma della ricchezza comune prodotta ma resa invisibile e non riconosciuta come tale, permette di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano.

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Come giornalista hai denunciato il lavoro gratuito all’Expo di Milano. Quella che sembrava un’eccezione, in pochi anni è diventata una realtà. In che modo la prospettiva del reddito può aiutare a evitare questo problema?

La sensibilità che si è creata sul tema da allora è positiva, ma non ci si chiede quasi mai quali siano le ragioni che spingono ad accettare queste forme di servilismo penoso travestito, senza vergogna, da “opportunità”. Si dice che sulla spinta del bisogno si accetti tutto, anche non essere pagati. E che i giovani e i meno giovani siano vittime di uno sfruttamento. Certo, ma è troppo semplice spiegare questa situazione così. Il problema è antropologico, psicologico, economico: esiste una mentalità che ritiene più conveniente diventare vittime di questo sistema. La spiegazione, forse, più convincente è quella di avere visibilità. Questa è la nuova merce che tuttavia non ha alcun valore di scambio, né potrà mai averne uno. L’essere visibile agli occhi del padrone è il desiderio più potente che anima chi non ha mezzi, né reddito. È una strada che porta alla disperazione: non esiste padrone che soddisferà un desiderio simile. La moneta della visibilità dovrà essere guadagnata con nuovo lavoro gratis. Ma questo è l’ultimo dei problemi. Il vero problema è quando il lavoro inizia a essere pagato. I ricatti non finiscono. Aumentano. Per uscire da questa trappola bisogna operare un taglio radicale tanto dalla subordinazione salariale quanto da quella psichica. Una soluzione è il reddito di base. Non ci sarà oggi, né domani. Ma è un problema attualissimo: basta vedere cosa è accaduto in Italia, negli ultimi cinque anni, con il reddito di inclusione (Rei): una forma del tutto insufficiente, e errata, per rispondere al dramma. Il reddito è un campo di lotta politica.

 

Hai seguito fin dalla sua nascita diverse esperienze di mutualismo contemporaneo, tra cui anche SMart. Cosa ci hai visto di buono, e pensi che questo modello sia estendibile?

Il modello SMart è il futuro. Nella sua idea di cooperativa di freelance, lavoratori autonomi e precari ci sono tutti gli elementi del mutualismo, della co-produzione, della tutela dei lavoratori del XXI secolo di cui si discute in tutto il mondo. Come altre forme dell’autorganizzazione del quinto stato (la Freelancers Union, la National Domestic Workers Alliance negli Stati Uniti, ad esempio) rappresenta una nuova sintesi avanzatissima dei bisogni e delle libertà della nuova forza lavoro. Trovo straordinaria l’invenzione di un doppio statuto del freelance: il lavoratore autonomo resta tale ma è anche dipendente di SMart. Sia che il freelance lavori per un committente pubblico o privato, per un breve o lungo periodo, in maniera mono-committente o pluri-committente, è assunto da SMart. Può lavorare a cottimo per un algoritmo come i rider? Non importa: nell’istante in cui il rider inizia a lavorare, automaticamente diventa un dipendente di SMart per il periodo della sua prestazione contingentata. Questo significa che i lavoratori nomadi, isolati, dispersi hanno uno status da dipendente – non delle piattaforme, ma di SMart che opera una re-intermediazione di ciò che le piattaforme disintermediano. SMart opera anche una disintermediazione di ciò che le piattaforme intermediano: il comando d’impresa e il furto di salario e di diritti. SMart permette a questi lavoratori – lì dove esistono le leggi – di percepire un sussidio di disoccupazione, avere la sanità, fare un mutuo, definire un contratto lì dove si dice invece che non è lavoro, è un hobby. I sindacati, i movimenti, la cultura dovrebbero valorizzarla e collaborare a creare modelli simili. Solo dalla coalizione tra più modelli, su vasta scala, si può creare un nuovo potere sociale e autonomo.

 

La domanda teoricamente più complessa: perché Nina Simone spiega il lavoro contemporaneo?

Perché è la voce della rivolta e dell’amore. È il riscatto della vita privata di tutto, tranne della sua potenza: I’ve got my life, and nobody’s gonna take it away, canta Nina in Ain’t got no, I got Life. Questo libro è dedicato a questo canto profondissimo. È il canto della potenza della vita.

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