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Intervista a Francesca Coin sul nuovo rifiuto del lavoro, sulle contraddizioni, sulla
narrazione e sul dibattito italiano del fenomeno mondiale
Intervistato da Bloomberg nel 2021, Anthony Klotz, psicologo del Lavoro allo University
College di Londra, conia il termine Great resignation per indicare la tendenza che in quella
fase di piena pandemia stava prendendo piede negli Stati Uniti. Secondo lo studioso le
ragioni che spingevano le persone a dimettersi volontariamente erano molteplici,
dall’esaurimento dilagante nei luoghi di lavoro all’emergere di “domande esistenziali” che
molti statunitensi si stavano ponendo rispetto alla qualità del proprio tempo e al valore dato
alla propria esistenza. In quell’anno 48 milioni di persone nel paese hanno lasciato il proprio
lavoro (su un totale di 166 milioni di persone occupate, secondo le statistiche governative).
L’anno successivo le grandi dimissioni hanno interessato più di 50 milioni di lavoratori.
Capire le ragioni dei quitters aiuta a riflettere sui mutamenti che interessano la percezione del
lavoro. “Con la forza del proprio gesto di sottrazione”, scrive la sociologa Francesca Coin,
“sono riusciti ad accendere i riflettori sul mondo del lavoro e a porre all’ordine del giorno una
discussione che è stata per lungo tempo rimandata”. Coin, prima professoressa associata nel
dipartimento di Sociologia all’Università di Lancaster, nel Regno Unito, e ora al Centro di
competenze lavoro e welfare, società della SUPSI, in Svizzera, analizza il fenomeno nel suo
libro “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”,
pubblicato da Einaudi nel 2023.
L’autrice non si limita ad ammettere che “il nuovo rifiuto del lavoro è un fenomeno
ambivalente e contraddittorio”, ma tenta di analizzare le motivazioni che inducono una
certa stampa a interpretare la tendenza unicamente come la scelta privilegiata di chi
può permettersi di mollare tutto per inseguire i propri sogni, se non quando una chiara
dimostrazione della svogliatezza dilagante tra le nuove generazioni.
Un processo di disaffezione al lavoro
Le tendenze attuali non possono essere comprese senza fare un passo indietro, all’inizio del
XX secolo: per contrastare alti tassi di turnover e assenteismo si mette a punto un regime
salariale fondato sulla grande fabbrica, prendendo a esempio le innovazioni introdotte nel
1914 da Henry Ford nella sua fabbrica automobilistica, in primis il raddoppiamento dei salari
e la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore al giorno.
Un sistema che entrerà in crisi negli anni Settanta e Ottanta, in cui sarà inaugurata quella che
nel libro viene descritta come l’epoca dell’infedeltà, caratterizzata da un’economia
terziarizzata basata su rapporti di lavoro individuali e precari. La fedeltà in realtà persiste, ma
è unilaterale: “I dipendenti devono dimostrare devozione al lavoro, mentre le aziende
possono assumerli per licenziarli quando vogliono, in una relazione usa e getta”, scrive Coin.
Indagando il caso italiano, l’autrice raccoglie una lunga serie di dati che riguardano i settori a
saldo negativo, dove le ricollocazioni verso altri settori superano quelle in entrata: commercio
e ristorazione, ma anche sanità e lavoro di cura. Ma il libro si arricchisce anche di
testimonianze dirette che offrono un quadro ampio e variegato sulla precarizzazione che
interessa il nostro paese. Oltre a dimostrare come il fenomeno sia trasversale, le dimissioni
volontarie si configurano come l’atto conclusivo di un processo di disaffezione al lavoro su
cui la crisi pandemica ha esercitato un influsso determinante.
Come si legge nel capitolo sesto, tra le cause di questa disaffezione figura il cosiddetto
“grande disallineamento”, tra “ciò che i leader aziendali considerano importante e ciò che
invece è importante per chi lavora”. Malgrado sia difficile fare un discorso unitario sulle
grandi dimissioni, è chiaro che il fenomeno è il sintomo collettivo di una crisi del modello
produttivo attuale.
Ma quali sono le peculiarità del caso italiano, che si piazza al primo posto in Europa per
numero di lavoratori autonomi? Qual è la narrativa che domina nel nostro paese, alla luce di
una diffusa erosione delle tutele e dell’alto tasso di disoccupazione? Abbiamo rivolto alcune
domande all’autrice.
Nel capitolo tre, dedicato all’Italia, scrivi che nel nostro paese il discorso sulle grandi
dimissioni è stato per lungo tempo “incentrato sulle tonalità emotive dell’incredulità”
delle aziende, incapaci di comprendere il perché le persone si licenzino. In generale, la
mia personale percezione è che la narrativa in Italia rispetto alle relazioni di lavoro sia
imbevuta di una sorta di paternalismo. Di fronte all’emergere di un “disallineamento
valoriale”, come scrivi citando un articolo del Financial Times, le vecchie generazioni
tentano di imporre ai più giovani un pacchetto di regole, impulsi e suggerimenti che si
basano sulle loro esperienze pregresse, ad oggi non replicabili nelle stesse forme.
Il dibattito su questo tema in Italia è stato a lungo incentrato sulle tonalità emotive
dell’incredulità. L’idea di fondo è che avere un lavoro è un privilegio e per questo privilegio
bisogna dire grazie, indipendentemente dalle condizioni effettive in cui ci si trova a lavorare.
C’è una sostanziale differenza tra il lavoro cui è stata educata la generazione cresciuta nel
boom economico e quello odierno. Un tempo il lavoro di una sola persona poteva provvedere
alle esigenze riproduttive di un intero nucleo familiare. In molte famiglie il lavoro retribuito
del solo breadwinner consentiva di comprare casa e di mantenere la famiglia.
La situazione attuale è contraddistinta dalla riduzione dei redditi, dalla precarizzazione e dal
deterioramento della qualità del lavoro. In questa situazione, si fatica a far fronte al costo
della vita anche quando all’interno dello stesso nucleo familiare lavorano più persone.
Eppure, nel nostro immaginario il lavoro è lo stesso dell’epoca fordista. In questo senso,
l’incredulità nasce dall’idea errata che il lavoro sia ancora ben retribuito e tutelato e che
lasciarlo sia un grosso rischio.
Questo anche perché, in molti casi, gli editorialisti sono uomini della vecchia generazione il
cui immaginario è fortemente segnato da ciò che il lavoro era in epoca fordista. In realtà,
oggi, anche lavorare è rischioso, perché il lavoro povero rende così poco che, spesso,
impedisce anche a chi ha un impiego di far fronte al costo della vita, di pagare le bollette e
l’affitto. Non a caso tra i percettori di reddito di cittadinanza c’erano anche persone con una
posizione lavorativa attiva il cui salario era così basso da costringerle a rimanere sotto la
soglia della povertà nonostante il lavoro. In questo contesto, il tema delle grandi dimissioni
non dovrebbe generare sorpresa né incredulità: quando il lavoro rende poco, chi lo lascia avrà
poco da perdere.
L’anomalia italiana
Si potrebbe dire che il dibattito paternalistico presente in Italia sia legato a doppio filo
al fatto che il nostro è un paese di paesi, e conta una fitta rete di “fabbrichette”, di micro
imprese quindi, in cui sfuma il conflitto tra domanda e offerta? Le relazioni informali
che questi luoghi offrono, in cui si intrecciano legami lavorativi e familiari, pesano sulle
condizioni interne?
Credo che sia un dato significativo soprattutto per quanto riguarda la cultura del lavoro. Se
andiamo a guardare le piccole e micro imprese italiane, molto spesso l’approccio si struttura
attorno al “qui è mio e si fa come dico io”, che è in tutto e per tutto rappresentazione di una
cultura padronale. È interessante notare anche come il termine “padrone” sia scomparso dal
dibattito pubblico da diverso tempo. Eppure, dal portato lavorativo che molte persone hanno
condiviso è emerso che non è affatto infrequente che il problema principale sia proprio questa
figura. Che secondo il mio parere ricorda molto quel libro di Goffredo Parise, Il padrone, in
cui il protagonista è di fatto il proprietario della vita del dipendente, che sarà tenuto a
seguirne gli ordini nella vita lavorativa e privata sino a sposare la donna che il padrone gli
chiede di sposare, per ripagarlo della sua grande generosità. È un libro fortemente
respingente, quello di Parise, e al contempo illuminante, proprio perché si ravvisano analogie
con la cultura del lavoro che si respira in alcune aziende, in cui l’unica regola è l’autorità
datoriale.
In generale, nei luoghi di lavoro in cui si registra molto lavoro nero, come la ristorazione e il
commercio, dove ci sono esternalizzazioni e appalti, non è raro che la democrazia sia assente.
Non è raro nemmeno che la cultura padronale si innesti sullo sfruttamento di lavoratrici e
lavoratori che non vengono riconosciuti a pieno titolo come soggetti di diritto. La
discriminazione delle donne, delle persone razzializzate e LGBTQ+ è uno degli esiti piu
frequenti di tutto questo.
Si potrebbe dire che è più difficile dimettersi dai luoghi di lavoro interessati da questa
sovrapposizione di problematiche e discriminazioni?
Non ne sono sicura. Il ventaglio di cause che portano le persone ad andarsene è molto
variegato ed è difficile generalizzare. Prendiamo il caso di un’attività del commercio o della
ristorazione e di persone per cui il proprio lavoro rappresenta l’unica fonte di reddito per
un’intera famiglia: queste persone tenteranno di resistere il più possibile, prima di decidere di
andarsene. Nello stesso tempo, un o una trentenne che non ha famiglia a carico potrebbe
decidere di mollare dopo poche settimane, se si trova nella stessa condizione. Le situazioni
sono così diverse che spesso è difficile generalizzare.
Nei mesi in cui ho raccolto interviste per il libro mi sono imbattuta in storie di persone
impossibilitate a mollare il lavoro perché la loro condizione personale in quel momento non
lo consentiva e altre che l’hanno fatto lo stesso. Dipende. Di sicuro un lavoro a basso reddito
al cui interno vi sono chiare condizioni di sfruttamento faticherà a trattenere i lavoratori e ad
attrarne di nuovi, esattamente per quello che dicevamo prima: perché la contropartita che il
lavoro offre è insufficiente. Credo che dovremmo guardare alle dimissioni come al sintomo di
un modello produttivo in cui le condizioni di lavoro si sono deteriorate a tal punto da essere
usuranti: sono queste condizioni che vanno cambiate.
Il titolo del capitolo 3, “L’anomalia italiana”, fa riferimento al fatto che le dimissioni
volontarie aumentano malgrado l’elevato tasso di disoccupazione. Un’altra eccezione è
che l’Italia è al primo posto tra i paesi europei per numero di lavoratori autonomi:
secondo i dati OECD sono oltre 5 milioni, più del 20% delle persone occupate. La media
europea è del 14,5%.
Come interpretare questi numeri? Indicano una consequenzialità dell’elevato tasso di
dimissioni volontarie o sono una caratteristica della stessa tendenza di erosione delle
tutele, esternalizzazione dei servizi eccetera?
Non so se c’è una consequenzialità: ci sono sicuramente persone attratte dal lavoro autonomo
perché pensano che questo consenta maggiori libertà, esattamente come ci sono persone che
decidono di lasciare un lavoro autonomo per il lavoro dipendente perché credono che quello
sia più tutelato. L’associazione dei freelance Acta e il gruppo di loro soci legati al settore
dell’editoria libraria RedActa fa un lavoro prezioso che consente di comprendere proprio le
esigenze e gli immaginari del lavoro autonomo, in una fase in cui anche questo è spesso
povero. Purtroppo, spesso nei luoghi di lavoro la crescita del lavoro autonomo è anche un
esito del disimpegno aziendale, che fa sì che diverse aziende si servano di finte partite Iva che
svolgono ruoli subordinati a tutti gli effetti eterodiretti e in forma di monocommittenza pur
senza godere di alcuna delle tutele del lavoro dipendente.
Al di là dalle scelte individuali, il problema di fondo è che nel mercato del lavoro i diritti
sono stati presi d’assalto e il rischio d’impresa è stato trasferito dalle aziende ai lavoratori e
alle lavoratrici, in un processo che ha reso il lavoro stesso insostenibile.
Nel libro citi alcuni dei neologismi che negli ultimi anni in Cina hanno raccontato la
crescente disaffezione dei giovani nei confronti del lavoro, nati anche come una reazione
alle chiamate fatte dal Partito comunista nei confronti delle nuove generazioni, a cui
viene chiesto di mobilitarsi per la ripresa nazionale. Ma come riflettono Diego Gullotta e
Lin Lili in un saggio uscito anche nella rivista Made in China Journal, questi movimenti
di opinione non sono riusciti a raggiungere una profondità tale da disarticolare il
discorso dominante orientato al mercato. Secondo te il fenomeno delle grandi
dimissioni, in Italia perlomeno, può avere la capacità di disarticolare le dinamiche
attuali e porre le basi per una risposta collettiva?
Il dibattito sulle grandi dimissioni conduce spesso a reazioni di diffidenza, ma se lo
guardiamo con attenzione, si configura come uno dei sintomi più importanti della crisi del
modello produttivo post-fordista: quello che per quarant’anni ha puntato a spremere le
risorse, tagliare all’osso gli organici, aumentare i turni di lavoro e assaltare i diritti, sotto
l’egida della precarizzazione e della esternalizzazione.
La globalizzazione ci aveva assicurato che i nostri sacrifici sarebbero stati ricompensati e che
tutti avremmo sperimentato un certo miglioramento nelle condizioni di vita. Invece la
globalizzazione ha portato a enormi diseguaglianze sociali, dentro e tra i paesi, una qualità
del lavoro deteriorata, burnout e insoddisfazione.
Persino in Cina, il rallentamento della crescita economica ha portato a crescenti critiche al
modello produttivo esistente. Che senso ha investire negli studi e fare tanti sacrifici se poi il
mercato ti premia con la disoccupazione e la povertà, si chiedono i neolaureati?
Le promesse neoliberali sono in crisi in luoghi diversi del mondo, dove non a caso le
dimissioni volontarie si accompagnano a una critica sempre più aspra al modello produttivo e
alla ripresa dei processi di organizzazione autonoma del lavoro. È questa l’unica vera uscita
collettiva dal contesto di crisi in cui ci troviamo.